sabato 30 marzo 2013

Giorgio Agamben - L'impero latino contro l'egemonia tedesca @ Repubblica, It, 15 marzo 2013



Nel 1947 un filosofo, che era anche un alto funzionario del governo francese, Alexandre Kojève, pubblicò un testo dal titolo L'impero latino, sulla cui attualità conviene oggi tornare a riflettere. Con singolare preveggenza, l'autore affermava che la Germania sarebbe diventata in pochi anni la principale potenza economica europea, riducendo la Francia al rango di una potenza secondaria all' interno dell' Europa continentale.
Kojève vedeva con chiarezza la fine degli stati-nazione che avevano segnato la storia dell' Europa: come l' età moderna aveva significato il tramonto delle formazioni politiche feudali a vantaggio degli stati nazionali, così ora gli stati-nazione dovevano cedere il passoa formazioni politiche che superavano i confini delle nazioni e che egli designava col nome di "imperi".
Alla base di questi imperi non poteva essere, però, secondo Kojève, un' unità astratta, che prescindesse dalla parentela reale di cultura, di lingua, di modi di vita e di religione: gli imperi – come quelli che egli vedeva già formati davanti ai suoi occhi, l' impero anglosassone (Stati Uniti e Inghilterra) e quello sovietico dovevano essere «unità politiche transnazionali, ma formate da nazioni apparentate». Per questo, egli proponeva alla Francia di porsi alla testa di un "impero latino", che avrebbe unito economicamente e politicamente le tre grandi nazioni latine (insieme alla Francia, la Spagna e l' Italia), in accordo con la Chiesa cattolica, di cui avrebbe raccolto la tradizione e, insieme, aprendosi al mediterraneo.
La Germania protestante, egli argomentava, che sarebbe presto diventata, come di fatto è diventata, la nazione più ricca e potente in Europa, sarebbe stata attratta inesorabilmente dalla sua vocazione extraeuropea verso le forme dell' impero anglosassone. Ma la Francia e le nazioni latine sarebbero rimaste in questa prospettiva un corpo più o meno estraneo, ridotto necessariamente al ruolo periferico di un satellite.
Proprio oggi che l' Unione europea si è formata ignorando le concrete parentele culturali può essere utile e urgente riflettere alla proposta di Kojève. Ciò che egli aveva previsto si è puntualmente verificato. Un' Europa che pretende di esistere su una base esclusivamente economica, lasciando da parte le parentele reali di forma di vita, di cultura e di religione, mostra oggi tutta la sua fragilità, proprio e innanzitutto sul piano economico.
Qui la pretesa unità ha accentuato invece le differenze e ognuno può vedere a che cosa essa oggi si riduce: a imporre a una maggioranza più povera gli interessi di una minoranza più ricca, che coincidono spesso con quelli di una sola nazione, che sul piano della sua storia recente nulla suggerisce di considerare esemplare. Non solo non ha senso pretendere che un greco o un italiano vivano come un tedesco; ma quand' anche ciò fosse possibile, ciò significherebbe la perdita di quel patrimonio culturale che è fatto innanzitutto di forme di vita. E una politica che pretende di ignorare le forme di vita non solo non è destinata a durare, ma, come l' Europa mostra eloquentemente, non riesce nemmeno a costituirsi come tale.
Se non si vuole che l' Europa si disgreghi, come molti segni lasciano prevedere, è consigliabile pensare a come la costituzione europea (che, dal punto di vista del diritto pubblico, è un accordo fra stati, che, come tale, non è stato sottoposto al voto popolare e, dove loè stato, come in Francia,è stato clamorosamente rifiutato) potrebbe essere riarticolata, provando a restituire una realtà politica a qualcosa di simile a quello che Kojève chiamava l'“Impero latino”.


Que l’Empire latin contre-attaque !
par Giorgio Agamben @ Libération, 24 mars 2013

En 1947, Alexandre Kojève, un philosophe qui se trouvait aussi occuper des charges de haut fonctionnaire au sein de l’Etat français, publie un essai intitulé l’Empire latin. Cet essai est d’une actualité telle qu’on a tout intérêt à y revenir.
Avec une prescience singulière, Kojève soutient sans réserve que l’Allemagne deviendra sous peu la principale puissance économique européenne et qu’elle va réduire la France au rang d’une puissance secondaire au sein de l’Europe occidentale. Kojève voyait avec lucidité la fin des Etats-nations qui avaient jusque-là déterminé l’histoire de l’Europe : tout comme l’Etat moderne avait correspondu au déclin des formations politiques féodales et à l’émergence des Etats nationaux, de même les Etats-nations devaient inexorablement céder le pas à des formations politiques qui dépassaient les frontières des nations et qu’il désignait sous le nom d’«empires». A la base de ces empires ne pouvait plus se trouver, selon Kojève, une unité abstraite, indifférente aux liens réels de culture, de langue, de mode de vie et de religion : les empires - ceux qu’il avait sous les yeux, qu’il s’agisse de l’Empire anglo-saxon (Etats-Unis et Angleterre) ou de l’Empire soviétique - devaient être des«unités politiques transnationales, mais formées par des nations apparentées».
C’est la raison pour laquelle Kojève proposait à la France de se poser à la tête d’un «Empire latin» qui aurait uni économiquement et politiquement les trois grandes nations latines (à savoir la France, l’Espagne et l’Italie), en accord avec l’Eglise catholique dont il aurait recueilli la tradition tout en s’ouvrant à la Méditerranée. Selon Kojève, l’Allemagne protestante qui devait devenir sous peu la nation la plus riche et la plus puissante d’Europe (ce qu’elle est devenue de fait), ne manquerait pas d’être inexorablement attirée par sa vocation extraeuropééene et à se tourner vers les formes de l’Empire anglo-saxon. Mais, dans cette hypothèse, la France et les nations latines allaient rester un corps plus ou moins étranger, réduit nécessairement à un rôle périphérique de satellite.
Aujourd’hui, alors que l’Union européenne (UE) s’est formée en ignorant les parentés culturelles concrètes qui peuvent exister entre certaines nations, il peut être utile et urgent de réfléchir à la proposition de Kojève. Ce qu’il avait prévu s’est vérifié très précisément. Une Europe qui prétend exister sur une base strictement économique, en abandonnant toutes les parentés réelles entre les formes de vie, de culture et de religion, n’a pas cessé de montrer toute sa fragilité, et avant tout sur le plan économique.
En l’occurrence, la prétendue unité a accusé les différences et on peut constater à quoi elle se réduit : imposer à la majorité des plus pauvres les intérêts de la minorité des plus riches, qui coïncident la plupart du temps avec ceux d’une seule nation, que rien ne permet, dans l’histoire récente, de considérer comme exemplaire. Non seulement il n’y a aucun sens à demander à un Grec ou à un Italien de vivre comme un Allemand ; mais quand bien même cela serait possible, cela aboutirait à la disparition d’un patrimoine culturel qui se trouve avant toute chose une forme de vie. Et une unité politique qui préfère ignorer les formes de vie n’est pas seulement condamnée à ne pas durer, mais, comme l’Europe le montre avec éloquence, elle ne réussit pas même à se constituer comme telle.
Si l’on ne veut pas que l’Europe finisse par se désagréger de manière inexorable, comme de nombreux signes nous permettent de le prévoir, il conviendrait de se mettre sans plus attendre à se demander comment la Constitution européenne (qui n’est pas une constitution du point de vue du droit public, comme il n’est pas inutile de le rappeler, puisqu’elle n’a pas été soumise au vote populaire, et là où elle l’a été - comme en France, elle a été rejetée à plates coutures) pourrait être réarticulée à nouveaux frais.
De cette manière, on pourrait essayer de redonner à une réalité politique quelque chose de semblable à ce que Kojève avait appelé«l’Empire latin».
Traduit de l’italien par Martin Rueff

venerdì 29 marzo 2013

Carlo Tecce: Enrico Sassoon: “Ecco perché Casaleggio scelse Grillo” @ Il Fatto Quotidiano, 28 marzo 2013


Enrico Sassoon: “Ecco perché Casaleggio scelse Grillo”
di Carlo Tecce @ Il Fatto Quotidiano

L'ex socio dell'imprenditore informatico racconta la genesi della collaborazione con il comico genovese: "Credo che il blog fosse un'idea di Casaleggio, Grillo non ha speso un euro". E parla della polemica dei troll: "La denuncia di Grillo è curiosa: ha fatto esattamente quello che lamenta ora"



Dodici anni in società con Gianroberto Casaleggio, un profilo internazionale, un’araldica complessa, scrittura e relazioni, economia e Internet, poi Enrico Sassoon ha scritto una lettera, lo scorso settembre, per sigillare proprio quei dodici anni. E in poche righe, pubblicate in evidenza sul Corriere della Sera, si è liberato di quelle ricostruzioni su complotti, massoneria, servizi segreti che – dice – l’hanno perseguitato. Non adora parlare ai giornalisti. Ci riceve in una sala riunioni costellata di oggetti elettronici antichi e moderni, che un neofita vedrebbe bene in un museo. Riflette su ogni sillaba e la registra anche


Quando ha incontrato Casaleggio?
Ci siamo conosciuti nel 2000, quando sono entrato a far parte del Cda di Webegg come consigliere indipendente. Quando nel 2004 Casaleggio fonda la sua società di consulenza e strategie di rete (che cura il sito di Grillo), mi propone di acquisire una quota e io entro come socio di minoranza con il 10%. In quell’epoca ero l’ad di American chamber of commerce. Ho lasciato la Casaleggio Associati perché c’erano fazioni in rete, esterne e interne al Movimento, che mi diffamavano. Né Grillo né Casaleggio mi hanno difeso. Sono stato costretto a lasciare pur non avendo mai scelto di fare politica con il M5S. Non mi ha colpito la rete, ma persone che hanno trovato la mia figura professionale poca consona al Movimento.


Come può un sito attirare milioni di visite che diventano milioni di voti?
Perché Grillo ha toccato corde di carattere sociale e politico che hanno persuaso un numero crescente di persone. Credo che il blog sia un’idea di Casaleggio, penso che Grillo non sapesse proprio nulla di Internet quando gli fu proposto. Casaleggio ha notato il successo di Grillo che faceva spettacoli con una componente di critica sociale e politica molto aggressiva. Ha pensato che potesse essere utile sfruttarlo e inserire Internet, le connessioni immediate, negli spettacoli in maniera tale che potesse far vedere le cose di cui parlava, ricordo ad esempio la vicenda Telecom. Hanno usato molto la famosa mappa del potere, elaborata da Casaleggio e Associati, che dimostrava come poche persone controllano molti Cda.


È stato anche un affare economico?
È convenuto per un breve periodo di tempo. Che io sappia, Grillo non ha mai pagato niente, non ha speso un euro, ma ha dato in concessione la vendita di dvd e libri. Pubblicità? Non ho idea. La Casaleggio ha un passivo non drammatico per una società che non supera 1,5 milioni di fatturato. Pura fantasia che la Casaleggio Associati abbia costruito un impero con quel fatturato.


Otto anni governando la rete, ora Grillo segnala “gruppi pagati per gettare fango”, i troll.
Mi sembra strano che si lamenti di interventi in rete di cui lui è stato il primo esempio. Come leggo nei commenti al blog, quelli più seguiti e votati, la maggior parte sono molto critici con la sua denuncia. La presa di posizione di Grillo è oggettivamente molto curiosa: lui ha fatto esattamente quello che lamenta in questo momento, e solo perché è rivolto contro di lui…


Ma Internet è davvero sinonimo di trasparenza?
La rete è uno strumento come il telefono o come la televisione, ma ha barriere di accesso più basse. La rete non significa democrazia, se usata male può anche significare attentato alla democrazia. Chi vuole identificare la rete come democrazia, e si immagina un popolo della rete, dice cose sostanzialmente sbagliate. La rete è lo strumento più potente per fare politica, nessuno, però, la usa in maniera sistematica come loro.


L’hanno usata per le Parlamentarie: poca partecipazione, tante polemiche.
Quando si selezionano persone per creare dei candidati queste persone dovrebbero essere selezionate per capacità, competenze, onestà, storie personali, quanto tutto questo sia stato possibile verificarlo attraverso le Parlamentarie, non ne ho idea e non ce l’ha nessuno se non chi le ha organizzate mettendo i filtri.


Quanto durerà il M5S in Parlamento?
La proposta politica di Grillo dipenderà dalla capacità di trasformare in programmi quelle che sono finora essenzialmente parole d’ordine peraltro abbastanza elementari e in parte solo di protesta. Per fare questo mi sembra che venga utilizzata una tecnica che ricorda molto quella economica del crowdsourcing (chiedere supporto alle folle, ndr), cioè quando un’azienda o una persona si rivolge a una comunità online, più o meno specialistica, per risolvere un problema e ricevere proposte che poi dovrà scegliere, premiare e infine utilizzare. Questo richiede due condizioni: la prima che esista un pensiero strutturato, la seconda che ci sia un’organizzazione capace di filtrare quello che arriva. Ascoltando Grillo che utilizza questi termini in maniera piuttosto confusa, che sono certamente patrimonio culturale di Casaleggio, ho la netta sensazione che si illudano di fare crowdsourcing politico non avendo per ora né una struttura organizzata né un pensiero realmente definito.


Chi è imprescindibile per il Movimento: Casaleggio o Grillo?
Mi pare che l’uno non viva senza l’altro. La parte ideologicamente più preparata mi sembra sia quella di Casaleggio,
Grillo è un megafono che ripropone delle elaborazioni che non necessariamente gli appartengono.
da il Fatto Quotidiano del 28 marzo 2013

Onorevole: Beppe Severgnini @ CorriereTV, 25 marzo 2013

lunedì 25 marzo 2013

VISUALIZING US DRONE STRIKES @ Information is Beautiful


A vital and eye opening visualisation from Pitch Interactive. Covering in detail the amount of casualties caused by US led drone strikes in Pakistan since 2004, the interactive breaks down deaths by location, date and by how many killed were civilians or children. It makes for sobering reading.

If you want more information, there’s a comprehensive dataset on the Bureau of Investigative Journalism‘s site, tracking less covered attacks across Somalia and Yemen, as well as those in Pakistan. (Read & See more)

Elezioni Nazionali 2013 - Indice di nazionalizzazione @ Gianluca Passarelli - Istituto Cattaneo


Altra tabella interessante quella che riporta l’indice di nazionalizzazione:



L’indice di nazionalizzazione ci dice quanto un partito è distribuito omogeneamente sul territorio. Il massimo è 1 (massimamente distribuito) e il minimo è 0 (non distribuito). Il M5S risulta il partito più nazionale del paese, il suo è un voto omogeneo da nord a sud.
Questo dato significa anche che basta presentare il simbolo ed in tutta Italia i voti si prendono. Il PD non risulta un partito arroccato, però non ha quella spinta nazionale che hanno M5S e PDL; conferma le proprie zone di forza e perde quella “spinta propulsiva per porsi come partito nazionale”.
 
Fonte: Istituto Cattaneo - Prof. Passarelli (Leggi qui tutte le slide Prof Passarelli)


domenica 24 marzo 2013

Clara Sacchetti, Todd Dufresne (Eds.) - The Economy as Cultural System Theory, Capitalism, Crisis - Bloomsbury Academic, Uk, 17.01.2013


The 2008 global crisis, unemployment, lack of retirement funds, bank bailouts... today, the "economy" is on everyone's mind. But what makes this rather opaque concept work? This collection of essays seeks out the answer by exploring contemporary capitalism from a variety of theoretical perspectives and by confronting the economy as a cultural system, a theory, and a driving force of every day life in the West. 

The first part of the book discusses past and present representation of capitalism (from Hegel and Marx to Negri and Florida) along with their continuing impact. The second part focuses on capitalism as a locus of power and resistance, and maps possible responses to the current situation. The roles of metaphor and discourse is examined throughout to rethink the implications of power in the context of globalization and consumer culture.

Each chapter features an abstract, study questions, as well as further reading suggestions, which, along with its accessible theoretical coverage, will make the book an essential study tool for students in social and political thought, globalization, and social theory.


Table of Contents

Preface

Todd Dufresne

Introduction: The Economy as Cultural System: Theory, Capitalism, Crisis

Clara Sacchetti

1. The I/Eye of Capital: Classical Theoretical Perspectives on the Spectral Economies of Late Capitalism 

Thomas M. Kemple

2. Can't Buy Me Love: Psychiatric Capitalism and the Economics of Happiness

Joel Faflak

3. Metaphoric Wealth: Finance, Financialization, and the End of Narrative

Max Haiven 

4. The Burden of Metaphor: Marx's Vampires, Populist Politics, and the Dialectics of Capitalist Abstraction

Matthew MacLellan

5. Critical Theory Against the Dispossession of Needs: From Perpetual Crisis to Social Engagement

Tim Kaposy

6. Finance and the Social Time of Aging: Toward a Synthesis

Justin Sully

7. The Work Idea: Wage Slavery, Bullshit, and the Good Infinite 

Mark Kingwell

8. The Uniqueness of Late Capitalism: Biopower and Biopolitics

Kezia Picard
9. Place, Creativity, and Richard Florida: On the Aesthetics of Economic Development

Todd Dufresne and Clara Sacchetti

10. Franco "Bifo" Berardi & the Future of Capitalism: "We Have to Run Along The Line of Catastrophe"

Andrew Pendakis


Todd Dufresne is Professor of Philosophy, founding Director of The Advanced Institute for Globalization & Culture.
 From 2008-2010 he was Research Chair of Social & Cultural Theory at Lakehead University, Canada. He teaches in the areas of Continental philosophy, film, cultural studies, and social and political philosophy and is the author of several books.


Clara Sacchetti  is an Adjunct Professor for Philosophy and  a sessional lecturer for Women's Studies. Her areas of interest include studies in feminist theory, post-colonial history, and postmodernism. She has published feature articles and reviews in FUSE Magazine, Boston Book Review, CAN, and The Semiotic Review of Books.

sabato 23 marzo 2013

Uno stupido è più pericoloso di un bandito (Carlo M. Cipolla) - Phrases Célèbres Saint Pancras Sessions


Uno stupido è più pericoloso di un bandito (Carlo M. Cipolla).

Ovvero come la legge fondamentale della stupidità viene condensata nei termini seguenti: ' Lo stupido causa danni ad altri senza alcuna contropartita vantaggiosa per sé o per la propria parte' . (leggi qui: sulle leggi della stupidità)

(...) La stupidità è assenza di giudizio, ma assenza attiva, rumorosa, preponderante. Lo stupido è pieno di sé, compie gesti irresponsabili con la certezza di essere efficace, forse perfino spiritoso. Si guarda intorno, ride delle proprie bravate è contento, se qualcuno gli fa notare l' inopportunità di ciò che dice, reagisce pensando che siano stupidi gli altri. Aveva ragione Cipolla: meglio un bandito.

Blogpic: Vito Crimi, capogruppo M5S al Senato della Repubblica, è riuscito a insultare in modo gratuito il Presidente della Repubblica, e quindi tutti gli italiani, con toni infantili e arroganti. (leggi qui)

(leggi qui l'articolo di Massarenti sul libro The Basic Laws of Human Stupidity di Carlo M.Cipolla)

Smemoranda 2 # dedicato a Roberta Lombardi, capogruppo M5S alla Camera dei Deputati


Roberta Lombardi in un post - famigerato  (qui il post incriminato) - afferma il 21 gennaio 2013 che non si  "(...) comprende l’ideologia del fascismo che, prima che degenerasse, aveva una dimensione nazionale di comunità attinta a piene mani dal socialismo, un altissimo senso dello stato e la tutela della famiglia". Per aiutare la smemorata neo-capogruppo M5S "sull'altissimo senso dello stato e la tutela della famiglia" da parte del fascismo, La invitiamo a Correggio, in Corso Mazzini, al numero civico 42, dove la neo capogruppo potrebbe vedere e valutare la lapide dedicata a Agostino Zaccarelli e Mario Gasparini, caduti il 31 dicembre 1920 per mano fascista. Tutto ciò accadde a soli pochi mesi dal manifesto di San Sepolcro, 23 marzo 1919, atto di nascita del movimento fascista. Giusto per ricordare alla smemorata deputata del M5S che già pochi mesi dopo la sua nascita, il movimento fascista aveva imboccato la strada della violenza e delle repressione fisica dei propri avversari. Altro dall'altissimo senso dello stato e la tutela della famiglia......

(...) La sera del 31 dicembre 1920 Mario Gasparini Agostino Zaccarelli vennero uccisi a colpi d'arma da fuoco durante uno scontro tra socialisti e squadristi modenesi di fronte alla Casa del Popolo di Correggio. Muratore l'uno, giornaliero l'altro, furono le prime vittime dello squadrismo fascista in provincia di Reggio Emilia. L'ondata di violenza e di aggressioni, in realtà, era già iniziata - nel bolognese e nel ferrarese - in novembre, raccogliendo adesioni e sovvenzioni da parte dei grandi proprietari terrieri. Il fascismo agrario nasceva così. E prendeva di sorpresa socialisti e contadini le cui leghe vennero sciolte e disperse. (...)  (Read more...)

Dal 31 dicembre 1920 al 31 dicembre 1925 gli omicidi compiuti dai fascisti in provincia di Reggio furono complessivamente 33. ( Read more.. )

giovedì 21 marzo 2013

Marta Paris: Grillini «prima forza politica»? No, eterni secondi, con un'eccezione @ Il Sole 24 ore, 21 marzo 2013


Marta Paris: 
Grillini «prima forza politica»? No, eterni secondi, con un'eccezione 
@ Il Sole 24 ore, 21 marzo 2013
Read more on S24ore



Sarà forse una semplice questione di semantica. A guardare il significato delle parole, però, il risultato cambia. Perché, ascoltando le dichiarazioni dalla capogruppo dei grillini alla Camera, Roberta Lombardi, dopo l'incontro al Colle con il Presidente Giorgio Napolitano, i conti proprio non tornano. «Il Movimento 5 stelle è stato la prima forza politica alle elezioni», ha detto all'uscita delle consultazioni, chiedendo per questo un incarico di governo. Ma, numeri del Viminale alla mano, le cose non stanno proprio così, con buona pace del primato rivendicato.
Senato ed estero pesano sul primato Sommando infatti tutti i voti ottenuti in Parlamento, a Montecitorio e a palazzo Madama, compresi quelli all'estero, il partito di Grillo si piazza, con quasi 16,2 milioni di consensi, al secondo posto dietro al Pd, che di milioni ne ha incassati 17,6, e seguito da Pdl (14,4 milioni di voti) e a lunga distanza da Scelta civica (che supera i 5,9 milioni). E neppure se restiamo nei confini nazionali, scorporando le circoscrizioni degli italiani all'estero, M5S risulta essere «la prima forza politica alle elezioni», staccata dai democratici da poco più di un milione di voti (15.975.308 consensi contro i 17.044.684 del partito di Bersani).
«Prima forza politica»: il sorpasso a Montecitorio La palma dei più votati i grillini se la aggiudicano solamente a Montecitorio. Dove c'è il sorpasso del Pd: i cinque stelle alla Camera hanno ottenuto infatti il 25,55% dei voti (8.689.458) contro il 25,42% del Pd (8.644.523) e il 21,56% del Popolo della libertà (7.332.972). Questo è vero però solo se si considerano i voti conquistati in Italia. Se a questi si sommano i voti all'estero l'ordine si inverte nuovamente con 8,9 milioni di voti per il parito democartico e 8,7 per i grillini. Così come al Senato, dove l'età dell'elettorato attivo sale da 18 a 25 anni. Qui le percentuali cambiano sensibilmente e M5S scende al 23,79% (7.285.850 voti) e i democratici salgono al 27,43% (8.400.161).

mercoledì 20 marzo 2013

Marco Baldassari e Diego Melegari - Populismo e democrazia radicale In dialogo con Ernesto Laclau - Ombre Corte, It, 2012


Marco Baldassari e Diego Melegari
Populismo e democrazia radicale
In dialogo con Ernesto Laclau

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Il libro
Sempre più frequentemente si assiste al ritorno nel lessico politico contemporaneo di concetti come "populismo" e "antipolitica", spesso utilizzati come passepartout per descrivere fenomeni eterogenei che sfuggono alla consueta classificazione della politica moderna: dal movimento dei "grillini" alla Lega Nord, dalle forme di etnopopulismo nazionalistico alle proteste antieuropeiste. Questo libro, intrecciando un dialogo con il filosofo argentino Ernesto Laclau, grazie anche a una lunga intervista qui pubblicata per la prima volta, prende l'avvio dalla nozione di "popolo" e propone una lettura alternativa alla piatta opposizione tra "populismo" e "democrazia". Attraverso un apparato concettuale che si nutre del riferimento a Gramsci e a Lacan, ma che si confronta anche con l'intera storia del marxismo politico, Laclau è arrivato a teorizzare un concetto di "popolo" e di "populismo" come articolazione egemonica e "democrazia radicale", contribuendo così a sottrarre questi concetti all'identificazione con un'omogeneità di tipo etnico o nazionalistico o a una viscerale antipoliticità. La riattivazione e la ridefinizione radicale di una categoria chiave della modernità politica come quella di "popolo" sembrano però destinate a trascinare con sé altre questioni, altrettanto classiche e bisognose di essere ripensate. "Stato", "rappresentanza", "popolazione", "massa", "organizzazione" appaiono infatti agli autori di questo volume termini che, insieme ad altri, non possono essere rimossi, se si vuole davvero raccogliere la sfida laclausiana e operare una critica radicale del presente.

Contributi di: Marco Baldassari, Laura Bazzicalupo, Gianfranco Borrelli, Pietro Bottazzi, Maura Brighenti, Stefano Calzolari, Fabrizio Capoccetti, Lorenzo Chiesa, Sandro Chignola, Ida Dominijanni, Fabio Frosini, Emanuele Leonardi, Diego Melegari, Sandro Mezzadra, Damiano Palano, Geminello Preterossi, Valerio Romitelli, Davide Tarizzo

I curatori
Marco Baldassari insegna Storia delle istituzioni politiche europee presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Parma. È ricercatore del Centro studi movimenti di Parma. Con Diego Melegari ha curato La rivoluzione dietro di noi. Filosofia e politica prima e dopo il '68 (Manifestolibri, 2008).
Diego Melegari è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Discipline Storiche, Antropologiche e Geografiche dell'Università di Bologna e membro del Centro studi movimenti di Parma. È autore di diversi articoli sulla filosofia francese contemporanea e sul marxismo degli anni Sessanta e Settanta.

Mario Tronti: c’è populismo perché non c’è popolo @ Democrazia e Diritto n.3/4 anno 2010

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Popolo
<< Una quantità di parole che usiamo di continuo, e crediamo perciò di comprendere in tutto il loro significato, sono in realtà chiare fino in fondo soltanto per pochi privilegiati. Così le parole “cerchio” o “quadrato”, di cui tutti si servono mentre soltanto i matematici hanno un’idea chiara e precisa del loro significato; così pure la parola “popolo”, che molte labbra pronunciano, senza che la mente ne afferri il senso autentico >>. Così parlava il matematico e filosofo Frédéric de Castillon, partecipando, e vincendo, al concorso indetto dalla Reale Accademia Prussiana (1778), sulla questione, cara a Federico II, “se possa essere utile al popolo d’essere ingannato”. << S’intende si solito per “popolo” - scrive ancora Castillon – la maggioranza della popolazione, quasi incessantemente dedita ad occupazioni meccaniche, grossolane e faticose, ed esclusa dal governo e dalle cariche pubbliche >>. Siamo alla vigilia della Rivoluzione francese, ma siamo in Germania, dove nazione e popolo non si erano ancora incontrati, come era da tempo accaduto, attraverso le monarchie assolute, in Inghilterra, Francia e Spagna. Siamo quindi anche in Italia. Frédéric de Castillon arriva a Berlino proveniendo dalla Toscana. Nazione e popolo nascono insieme in età moderna. E chi li mette insieme è lo Stato moderno. Non c’è nazione senza Stato. Ma non c’è popolo senza Stato. Questo è importante, da un lato per capire, dall’altro per stringere il problema ai tempi che ci riguardano e ci impegnano. Perché il tema è eterno. Biblico, prima che storico.
Sul concetto antico di popolo
Il concetto antico-testamentario di popolo - il popolo fondato da Mosè – mi sembra più vicino al concetto moderno di popolo di quanto non lo sia il demos dei Greci o il populus dei Romani. Né la città-stato né l’impero fondano un popolo. Non c’è la terra promessa, non c’è l’esilio, l’esodo, non c’è il Dio degli eserciti. I cittadini liberi nell’agorà, come la plebe sugli spalti del Colosseo, non fanno popolo. Immagini, queste, e metafore, attuali/inattuali per il nostro tempo. Popolo è concetto teologico secolarizzato. Non c’entrano niente né l’assemblea degli elettori sovrani, né la belua multorum capitum. Popolo di Dio viene prima di popolo della nazione. Dicono Esposito-Galli, in “Enciclopedia del pensiero politico”, che il processo di secolarizzazione comincia con Marsilio ( universitas civium seu populus ) e con Bartolo (populus unius civitatis). Ma sarà poi Machiavelli a parlare di governo popolare distinto e contrapposto al principato e alla repubblica aristocratica. E per Hobbes, nello Stato leviatanico, “i sudditi sono la moltitudine e il popolo è il re”.
Kings or the people, il poderoso affresco di Reinhard Bendix, ci racconta il passaggio dalla medioevale autorità dei re al moderno mandato del popolo. Mandate to rule: quante volte il moderno del capitalismo ha promesso e non mantenuto questo progetto, che è servito alla fine sempre solo ai suoi fini, di sviluppo, di mutamento e, attraverso guerre e crisi, di rinascimento? La storia del Novecento, nei diversi ritornanti passaggi dai totalitarismi alle democrazie, se ce ne fosse stato bisogno, ha confermato tutto. E mentre scrivo, qualcosa del genere sta di nuovo succedendo, sulle rive del Mediterraneo, nel crollo dei sultanati ad opera del popolo nelle piazze. Dove andranno queste forme di popolo? Che cosa otterranno? A chi serviranno? Bendix racconta appunto l’onda lunga che dall’Inghilterra e dalla Francia del sedicesimo secolo arriva solo nel secolo diciannovesimo in Germania, in Giappone e in Russia e nel ventesimo approda alla rivoluzione cinese e al nazionalismo e socialismo arabo. E’ un’idea di popolo tutta legata al nation-building. E’ un’idea borghese, nazional-borghese, di popolo. Ma al contrario di quanto si penserà nel pensiero progressista, che tanto male ha fatto alla prassi del movimento operaio, il concetto politico di popolo non esplode con la Rivoluzione francese, né con le precedenti analoghe rivoluzioni borghesi, quella inglese e quella americana, che sono forme di guerra nazionali e sociali. Bisognerà aspettare il ’48 per vedere in campo questo nuovo soggetto politico. Delacroix, imbevuto dell’idea romantica di Volksgeist, era riuscito a scorgere nella Rivoluzione di luglio, del ’30, l’immagine trionfante della “libertà che guida il popolo”.
Sul concetto politico di popolo
Ma è “il maledetto sia giugno” del ’48 che da Parigi all’Europa, vedrà la realtà, inaudita per i borghesi, del popolo in armi sulle barricate, per la propria rivoluzione. Marx commise l’errore geniale di scorgerci profeticamente la figura emergente del soggetto politico operaio. Si trattava in realtà dell’antico proletariato che, dalla prima rivoluzione industriale, aveva già invaso pezzi di società, soprattutto urbana. Ma qui, un punto determinante, di analisi, e di orientamento, e di giudizio. E’ il concetto di classe che fa del popolo una categoria della politica, della politica che ci interessa, quella autonoma dall’uso che ne hanno fatto e ne fanno le forze dominanti.
Il concetto di classe, e di lotta di classe, irrompe nella storia moderna a scardinare l’intero apparato teorico di analisi dell’economia e della società. L’avevano inventato gli storici della Restaurazione. I reazionari hanno sempre lo sguardo acuto, per interesse di parte, nel leggere la realtà effettuale. Con la classe il popolo diventa soggetto politico. Di lì, una storia ambigua, doppia, niente affatto lineare, luci ed ombre, squarci di chiarezza e periodi di confusione. E’ il punto di vista di classe che fa del popolo un soggetto politico. Senza classe non c’è politicamente popolo. C’è socialmente. O c’è nazionalmente. Due forme di neutralizzazione e di spoliticizzazione del concetto di popolo.

Sul popolo comunista
La dizione di “popolo comunista” viene aspramente contestata dai teorici, e dai pratici, del nazional-popolare. Giustamente, dal loro rispettabile punto di opinione, di continuità gramsciano-togliattiana. Ma popolo comunista aveva un senso nel partito, e per il partito, che si diceva della classe operaia. Quando questa nominazione è stata abbandonata, già qualche anno prima dello scioglimento del Pci, praticamente nel dopo Berlinguer, non si è estinto solo il popolo comunista, ma il concetto-realtà, politico, di popolo. Dobbiamo sapere che quando diciamo oggi “ceti popolari” stiamo maneggiando un concetto sociologico, una condizione, una collocazione, di presenza sociale, che non a caso risulta imprendibile, irrappresentabile, politicamente. E infatti può essere presa, e rappresentata, addirittura da posizioni antipolitiche. Il populismo sta dentro questo intreccio. Che cosa dice il fatto che "populism" e "narodnicestvo" dicono, più o meno nello stesso tempo - gli ultimi decenni dell’Ottocento -, sia pure in forme tanto diverse, la stessa cosa, ed esprimono almeno la stessa tendenza? Che cosa, oltre la previsione tocquevilliana che America e Russia sarebbero stati i grandi protagonisti storici del Novecento? E’ dalla critica del populismo che nasce l’età matura della democrazia in America. E dalla critica del populismo nasce la teoria e la pratica della rivoluzione in Russia. Quest’ultima cosa ci riguarda in modo particolare. Il giovane Lenin che, da socialdemocratico, combatte contro gli “amici del popolo”, si guadagna, su questo campo, l’analisi corretta dello sviluppo del capitalismo in un paese arretrato. E’ il metodo giusto. Il populismo ha sempre indicato un problema. E un problema reale. Anche oggi, da questa segnalazione occorre risalire alla necessità di un’analisi delle condizioni reali, sociali e politiche, economiche e istituzionali, entro cui stiamo.
Dalla critica alle soluzioni che il populismo avanza, occorre ritornare all’elaborazione delle soluzioni alternative. Il populismo è la forma, una delle forme, in cui si ripropone periodicamente il problema irrisolto della modernità politica, il rapporto tra governanti e governati. In questo senso il fenomeno ha scavallato la soglia delle società meno avanzate, a prevalenza di economie agrarie e di masse contadine, come può essere stato, e già non lo è più, in alcuni paesi dell’America latina. Il fenomeno ha raggiunto, in forme inedite, le economie che si dicono postindustriali e i sistemi politici che si dicono postdemocratici. E’ qui che va affondato lo sguardo. E questo numero di “Democrazia e diritto”* cerca di farlo.
Sulla ragione populista
Quando discutemmo, al Crs, con Laclau il suo libro La ragione populista, apprezzammo il suo sforzo di fare critica del populismo cercando di salvare l’idea di popolo. E’ il percorso giusto. Lo dimostra l’anomalia italiana, quella di ieri e quella di oggi. Quella di ieri vedeva grandi forze politiche saldamente poggiate su componenti popolari presenti nella storia sociale, il popolarismo cattolico, la tradizione socialista, la diversità comunista. Siccome c’era popolo, non c’era populismo. Al contrario di oggi, quando c’è populismo perché non c’è popolo. Torna allora utile proprio qui, anzi qui indispensabile, il richiamo al concetto politico di popolo. Perché di questo si tratta. Come e quando si è dissolto questo che abbiamo chiamato concetto-realtà? E’ avvenuto contemporaneamente e contestualmente al dissolvimento dell’idea e della pratica di classe. E non perché la condizione sociale di classe sia scomparsa, ma perché è stato abbandonato il riferimento politico ad essa. Questo spazio vuoto viene riempito dalla pulsione populista attuale, che non è più originata dal richiamo difensivo ad antiche tradizioni comunitarie, piuttosto, al contrario, dall’adattamento aggressivo alla scomposizione di ogni legame sociale.
Lenin apprezzava il primo populismo russo contro il secondo. Come noi dovremmo apprezzare il populismo del People’s Party contro quello attuale del Tea Party. Forse conviene andarci a rileggere Christopher Lasch, come opportunamente consiglia Claudio Giunta nel Focus dedicato al populismo nel numero 4/2010, di Italianieuropei. Leggere, naturalmente con misura, quello che lo stesso Lash scrive nel breve testo pubblicato in quel numero: << La sinistra ha perso da parecchio tempo ogni interesse nei confronti delle classi inferiori. E’ allergica a tutto ciò che assomiglia a una causa perduta >>. Una causa perduta è occuparsi ancora, come un tempo, dei problemi quotidiani degli abitanti delle periferie metropolitane, che hanno la pessima abitudine di non frequentare l’Auditorium Parco della Musica.
Sul popolo del turbocapitalismo
E’ difficile dire che cos’è popolo, oggi. Il popolo del turbocapitalismo: composizione sociale, insediamento territoriale, lasciti tradizionali, lingua, dialetto, culture, tra megalopoli, medio e piccolo centro, paese e frazione di paese, differenza femminile, qui, in questo punto, nel basso del sociale. Spazi di analisi per una sinistra del futuro. Non è navigando in rete che si toccano i livelli profondi dell’esistenza umana disagiata. Non è con la biopolitica che si intercettano i bisogni delle persone semplici, donne e uomini, come si dice, in carne ed ossa. Recita il mantra: nulla è più come prima, nulla si può più dire come prima. Ma io non trovo una definizione diversa di popolo da quella che dice: classi inferiori. Diversa dall’idea settecentesca di una “popolazione dedita a occupazioni meccaniche, grossolane e faticose, esclusa dal governo e dalle cariche pubbliche”. E’ ancora, essa, maggioranza? Dipende da che punto si guarda il mondo: da occidente o da oriente, da nord o da sud. Qui da noi, nel nostro giardinetto, incantato e malandato, la contraddizione è sempre crescente. Sia con la crisi, sia con lo sviluppo, negli ultimi decenni la distanza tra ricchi e poveri è aumentata. Chi lavora, lavora di più e guadagna di meno. Chi non lavora, perché non trova lavoro, scende i gradini della scala sociale: come sta avvenendo per la prima volta a questa forma inedita di sottoproletariato intellettuale. E’ in atto una sorta di proletarizzazione postmoderna dei ceti medi. Sociologicamente quello che si può dire popolo si riproduce in forma allargata. Ma non è questa misura quantitativa il punto decisivo. Anche se fossero destinate, le classe inferiori, ad essere consistente minoranza, è da quella parte che bisogna stare.
Sull'efficacia del combattimento contro il populismo di oggi
C’è un solo modo per combattere efficacemente il populismo di oggi, fino a sconfiggere le sue ragioni, ed è nel dare un segno politico a questa realtà di popolo. Gino Germani leggeva in modo perspicace il populismo come passaggio da tradizione a modernità, dove pezzi dell’una e pezzi dell’altra convivevano e si combattevano. Guardava soprattutto a quello dell’America Latina. Ma il discorso vale anche per il populismo delle origini, russo e statunitense. Il populismo di oggi descrive il passaggio dal moderno a quello che si dice il postmoderno, per significare una cosa che nessuno sa che cosa sia, una terra di nessuno, ma per quello che già si può già vedere, un mondo senz’anima, solo corpi, virtuali però, corpi senza carne, appendici delle macchine, le sole creature rimaste intelligenti. La deriva populista, malattia della vecchiaia delle società avanzate, esprime nel suo fondo oscuro essenzialmente tutto questo. La forma politico-istituzionale - sarebbe più corretto dire antipolitico-istituzionale – è il nuovo Leviatano della democrazia populista. Un mostro niente affatto mite, armato di quella violenza sottile che è il consenso plebiscitario, macroanthropos animalizzato, rivestito di luccicanti panni partecipativi, che nascondono la nuda vita della cessione di sovranità dalla nuova plebe all’ultimo capo, nemmeno carismatico. Nel populismo di oggi, non c’è il popolo e non c’è il principe. E quello che abbiamo imparato da bambini - “a conoscere bene la natura de’ popoli bisogna essere principe e a conoscere bene quella de’ principi bisogna essere populare” -, per essere messo di nuovo a frutto, ha bisogno che riemergano, nelle vesti nuove assunte, i poli del conflitto. Per questo, è necessario battere il populismo, nella forma della democrazia populista: perché nasconde il rapporto di potere. E’ l’apparato ideologico, adeguato al nostro tempo, che maschera, e al tempo stesso garantisce, il funzionamento della realtà. Dentro c’è tutto: la dittatura della comunicazione, la vecchia sempre nuova società dello spettacolo, la civiltà dell’intrattenimento, l’ultima retorica di massa, la retorica della rete, l’interattività come luogo di subalternità. Conseguenza: tutti, e tutte, parlano di politica in modo stravagante, non guardando dai luoghi bassi ai monti e dai luoghi alti al piano, ma girando intorno, chiacchierando del più e del meno, di corpi e desideri, di comune e governance, di diritti o di tumulto.
Sul "come si fa popolo"
Come si fa popolo, oggi: questo è il problema. Come si fa popolo, senza più la centralità della classe. Fare popolo incontra le stesse difficoltà che fare società. E’ possibile riaggregare una soggettività collettiva di persone dopo la disgregazione che gli spiriti animali borghesi hanno prodotto nei rapporti del tutto asociali tra gli individui? E anche: come si fa principe, senza più la sovranità dello stato-nazione. Quale autorità senza Stato, e pur tuttavia ancora in presenza del potere? Chi decide nello stato normale, visto che lo stato d’eccezione si colloca ormai fuori dall’Occidente? Laclau ha fatto più di un riferimento agli studi di Margaret Canovan, sia agli ultimi dove riprende la distinzione di Michael Oakeshott tra una politica redentiva e una politica pragmatica, sia ai primi ( Populism, del 1981 ), dove, appunto, nel populismo, possiamo dire, urbano, diverso dal populismo agrario delle origini, si ripropone il problema del rapporto tra élites e popolo. Il tema del senso della politica e il tema della verticalità della relazione politica, sono strettamente intrecciati. Volta a volta, per ogni tempo, non necessariamente per ogni epoca - le epoche sono rare! – il primo tema rimane eguale nell’eterno ritorno, il secondo cambia forma nel decorso storico.
Sulla politica di redenzione
Tenendo ferma politica di redenzione e politica di realismo, devi capire che cosa c’è, qui e ora, nel basso della società e nell’alto del potere. Il Novecento ti ha dato il popolo come classe e l’élite come partito. Una potente semplificazione che ha fatto grande storia. Comprensibile a tutti, ha messo in moto le masse. Modello irripetibile? Probabilmente, sì. Perché è superato il sistema dei soggetti. Ma superare - quella sì un’epoca! - dialetticamente vuol dire conservarne l’essenza di metodo, il movimento della politica. Popolo ed élite non porta al populismo. Porta al populismo capo ed élite. La teoria delle élites ha fatto critica anticipata della personalità autoritaria. E l’avrebbe scongiurata se fosse stata praticata da una grande forza politica. Attraverso la riproposizione della teoria delle élite si potrebbe oggi fare critica posticipata della personalità democratica. E si potrebbe, questa, delegittimare nella pratica di un forte movimento politico. C’è un solo modo per decostruire il potere della personalizzazione ed è quello di ricostruire l’autorità di classi dirigenti. Questo si può fare solo a sinistra e con la sinistra. Soltanto qui si può resuscitare, con la mente, il senso autentico del concetto politico di popolo: specificandolo e determinandolo con il concetto sociale di lavoro. 
Sul popolo lavoratore
Popolo, non di sudditi, non di cittadini, ma di lavoratori. Popolo lavoratore: nuovissima parola antica. Dove il lavorare raggiunge non la vita, ma l’esistenza, nella centralità politica della persona che lavora. Dopo la giusta, e libera, parzialità operaia - lì giustizia e libertà hanno avuto veramente un senso -, per ritrovarlo questo senso, occorre, ed è possibile, forse per la prima volta, fondare una classe generale. Quella del popolo lavoratore. La classe operaia, nella sua orgogliosa rivendicazione di essere parte, nel rifiuto del lavoro, che nient’altro era che rifiuto di essere classe generale, è stato un soggetto rivoluzionario sconfitto. Perché la sconfitta politica non si traduca in fine della storia, è necessario riafferrare il filo là dove si è spezzato, riannodarlo e ripartire e proseguire. L’exit è totus politicus. Popolo lavoratore come classe generale è possibile solo oggi, nelle condizioni di lavoro esteso e parcellizzato, diffuso e frantumato, territorializzato e globalizzato, lavoro marxiano sans phrase, che va dalla fatica delle mani alla fatica del concetto, dall’occupazione che non si ama all’occupazione che non si trova, un arcipelago di isole che fanno un continente. Che cos’è élite? E’ la forza politica che fa dei lavoratori un popolo. Una classe dirigente che fa non di se stessa ma del lavoro un soggetto governante. Poi si troverà il nome dello scopo finale. Intanto si dicano i mezzi per raggiungerlo.

*Il Populismo, Democrazia e Diritto numero 3-4/2010